I tre tigli di Hermann Hesse. Se proprio dobbiamo parlare d’amore che sia vero e incondizionato
Come dovevano essere grandi e belli e ombrosi quei tre tigli che coprivano con le loro fronde il cimitero dell’ospedale di Santo Spirito di Berlino per aver loro dedicato questa bella leggenda!
Hermann Hesse per raccontare questa storia d’amore fraterno trae ispirazione da una leggenda greca, Damone e Finzia, in questo caso storia di amicizia e fedeltà.
Queste storie ci indicano una via fatta di amicizia, fedeltà estrema e amore incondizionato.
Leggenda dedicata all’amico Ettore, che era così:
“con le radici protese verso l’alto e le fronde sparse sulla terra. Adesso che le sue radici sono nel cielo, come si allargheranno le sue fronde sulla terra!”
I tre tigli
Più di cent’anni fa, nel verde cimitero dell’ospedale di Santo Spirito a Berlino c’erano tre tigli, ed erano così alti che, come un enorme tetto, coprivano tutto il cimitero con l’intreccio dei rami e delle foglie dei loro rami giganteschi. L’origine di questi bei tigli, che risale a qualche secolo fa, viene narrata in questo modo.
Vivevano a Berlino tre fratelli che nutrivano l’uno per l’altro un’amicizia e una confidenza tali, che è raro incontrarne. Ora un giorno accadde che il più giovane di essi una sera uscì da solo, senza dir nulla ai fratelli, perché in una strada lontana doveva incontrarsi con una ragazza e passeggiare con lei. Ma ancor prima di raggiungere il luogo verso il quale si dirigeva assorto in piacevoli sogni, da un angolo buio e solitario tra due case udì provenire un gemito e un rantolo soffocati, e subito seguì quei suoni; pensava infatti che vi si trovassero un animale, o forse un bambino, ai quali fosse successo un qualche infortunio, e che aspettassero aiuto. Come fu giunto nell’oscurità di quel posto appartato, vide con spavento un uomo riverso nel proprio sangue, si chinò su di lui e gli chiese compassionevolmente che cosa gli fosse accaduto, ma non ottenne altra risposta se non un debole respiro ed un singulto, perché il ferito era stato accoltellato al cuore e spirò dopo pochi istanti, nelle braccia del suo soccorritore.
Il giovane non sapeva che fare e, poiché il ferito non dava alcun segno di vita, costernato e confuso tornò a passi incerti sulla strada. Ma in quell’istante si imbatté in due soldati di ronda, e mentre ancora pensava se chiedere loro aiuto oppure andarsene senza dir nulla, le guardie notarono il suo spavento, gli si avvicinarono, videro subito del sangue sulle sue scarpe, e sulle maniche della veste, e lo arrestarono con la forza; poco badando a ciò che quello cominciava supplichevolmente a raccontare. Lì accanto trovarono il morto che già stava diventando freddo, e senza indugio portarono il presunto assassino in prigione, dove fu posto in catene e strettamente sorvegliato.
Il mattino seguente il giudice lo interrogò. Era stato portato là il cadavere, e solo adesso, alla luce del giorno, il giovane riconobbe in esso il garzone di un fabbro , con il quale in precedenza era stato in qualche amicizia. Prima però aveva dichiarato di non conoscere l’ucciso, e di non saper nulla di lui. Pertanto il sospetto che egli lo avesse pugnalato si rafforzò di molto, ed essendosi reperiti nel corso della giornata alcuni testimoni che avevano conosciuto il morto, fu detto anche che il giovane, tempo prima, era stato amico del fabbro, ma che si erano poi lasciati in discordia a causa di una ragazza. In questo c’era un po’ di verità, ma soltanto una piccolissima parte, che anche l’accusato ammise senza timore, protestando la propria innocenza e chiedendo non grazia ma giustizia.
Il giudice non aveva dubbi che l’assassino fosse lui, e pensava di trovar presto prove sufficienti per processarlo e consegnarlo al boia. Quanto più il prigioniero negava e diceva di non saperne nulla, tanto più veniva considerato colpevole.

Intanto, a casa, uno dei suoi fratelli – il maggiore era dal giorno prima in campagna per affari – aveva invano cercato e atteso il fratello più giovane. Quando gli giunse all’orecchio che era in prigione, accusato di un assassinio che egli negava ostinatamente, andò subito dal giudice.
“Signor giudice” disse, “avete imprigionato un innocente, liberatelo! Vedete l’assassino sono io, e non voglio che un innocente soffra per me. Ero in cattivi rapporti col fabbro e gli davo la caccia; ieri sera lo vidi che si dirigeva verso quell’angolo per un bisogno intimo, allora gli andai dietro e gli trafissi il cuore con un coltello.”
Stupito il giudice ascoltò questa confessione e fece incatenare e incarcerare il fratello, in attesa che si facesse luce sul fatto. Così i due erano incatenati nella stessa prigione, ma il più giovane ignorava quel che il fratello aveva fatto per lui, e non cessava di proclamare la propria innocenza.
Trascorsero due giorni senza che il giudice avesse potuto scoprir niente di nuovo, e già era propenso a prestar fede al presunto assassino che si accusava da solo. A quel punto il fratello maggiore tornò a Berlino dal suo viaggio di affari, a casa non trovò nessuno e dai vicini seppe quel che era successo al fratello minore, e come il secondo si fosse presentato al giudice per lui. Allora uscì che era ancor notte, fece svegliare il giudice e si prostrò davanti a lui con le parole: “Nobile signor giudice! Avete incatenato due innocenti che soffrono per causa mia. Il garzone del fabbro non l’ha ucciso né mio fratello minore né l’altro, sono io che ho commesso il delitto. Non posso sopportare oltre che in prigione al posto mio stiano altre persone che non hanno colpa alcuna, e, vi prego, lasciatele andare e prendete me, che sono pronto a pagare il mio delitto con la vita.”

Ora il giudice era ancor più stupefatto e non sapeva che partito prendere, se non fare arrestare anche il terzo fratello.
Ma la mattina presto il guardiano, tendendo attraverso la porta al fratello più giovane il suo pane di prigioniero, gli disse: “Adesso vorrei davvero sapere chi di voi è realmente il mostro”. Per quanto il giovane lo pregasse e lo interrogasse, il guardiano non volle dirgli altro, ma dalle sue parole quello dedusse che i suoi fratelli erano venuti a sacrificare la propria vita per lui. Allora scoppiò a piangere forte e chiese insistentemente di essere condotto dal giudice, e quando gli fu davanti in catene pianse di nuovo e disse: “Signore, perdonatemi di avervi mentito così a lungo! Ma pensavo che nessuno avesse visto quel che ho fatto, e nessuno potesse provare la mia colpevolezza. Ma ora vedo bene che tutto deve avere il suo giusto corso, non posso più resistere e voglio confessare che sono stato io a uccidere il fabbro, e sono colui che deve pagare con la sua povera vita”.
A questo punto il giudice spalancò gli occhi e credette di sognare, il suo stupore era indescrivibile, e in cuor suo cominciava ad aver paura di quell’insolita faccenda. Fece di nuovo rinchiudere e sorvegliare il prigioniero, come pure i suoi fratelli, e stette a lungo assorto in riflessioni, perché vedeva bene che soltanto uno di loro poteva essere l’assassino, e che gli altri solo per nobiltà d’animo e raro amor fraterno si erano offerti al boia.
Le sue riflessioni non approdarono a nulla, ed egli comprese che il semplice pensiero umano non avrebbe trovato soluzione alcuna. Perciò il giorno seguente lasciò i prigionieri in buona custodia e si recò dal principe elettore, al quale raccontò per filo e per segno quella singolare faccenda.
Il principe elettore stette ad ascoltare con la più grande meraviglia, e alla fine disse: “E’ un affare insolito e strano! In cuor mio credo che nessuno dei tre abbia commesso il delitto, neppure il più giovane che le vostre guardie hanno arrestato, e che sia tutto vero quanto lui diceva all’inizio. Ma poiché si tratta di un delitto contro la vita, non possiamo senz’altro lasciare libero il sospettato. Pertanto invocherò Dio stesso a giudice di questi tre leali fratelli, sottoponendoli al suo giudizio”.
E così fu fatto. Si era in primavera, e in un giorno chiaro e caldo i tre fratelli furono condotti in un luogo verdeggiante, e a ciascuno fu dato da piantare un giovane e robusto tiglio. Ma non dovevano interrare i tigli dalla parte delle radici, bensì da quella delle giovani chiome verdi, sicché le radici fossero rivolte al cielo, e a chi l’alberello fosse morto o si fosse seccato per primo, quello doveva essere considerato il colpevole e giustiziato.
Così fecero i fratelli, e ciascuno piantò con cura il suo alberello con i rami nella terra. Ma passò poco tempo che gli alberi cominciarono tutti e tre a germogliare e a metter nuove foglie, a segno che tutti e tre i fratelli erano innocenti, e i tigli crebbero e diventarono alti, e si ersero per qualche secolo nel cimitero dell’ospedale di Santo Spirito a Berlino.

Utile
- Se volete stampare questa bella leggenda in b/n, I tre tigli
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