Dopo aver posto la domanda alla giornalista Marina Corradi, introducendo questa nuova strada per riuscire a trovare i libri più adatti, (possiamo osare dire più belli?) per i nostri bambini, l’abbiamo posta alla scrittrice Silvana De Mari. Qual è IL LIBRO della tua infanzia?
Chi ama il genere fantasy la conosce bene, perché con i suoi tanti titoli da L’ultimo Elfo alla saga di Hania, a Arduin il Rinnegato, ha creato, per gli appassionati, personaggi inusuali e accattivanti. Ma anche chi con il genere fantastico non ha molta dimestichezza apprezza i suoi racconti, dannatamente realistici nel descrivere dinamiche e aspirazioni umane e nel puntare dritti all’essenziale, eliminando il superfluo, dando a ogni dettaglio il suo vero nome, con durezza e truculenza, a volte. Ostinatamente rivolti alla ricerca di ciò che fa l’Uomo, Uomo.
Stiamo parlando di Silvana De Mari, medico chirurgo e scrittrice, lei si definisce “un medico che scrive”. Vincitrice di un premio Andersen e di un Bancarellino, tradotta in diciotto lingue e distribuita in tutta Europa e in molti paesi extraeuropei. La De Mari è oggi considerata una delle firme più prestigiose del panorama letterario italiano contemporaneo. In libreria l’ultimo atto della saga di Hania: Io sono Hania.
Anche a lei, che abbiamo incontrato di recente, in occasione di una lezione sul #RealismoFantastico, abbiamo chiesto di parlare del libro che ha segnato la sua infanzia.
Già affascinata dal tema degli ultimi e, sperimentando sulla pelle, prima di poterlo scandagliare in tutti i suoi racconti, il dolore del diverso, Silvana De Mari ha ricordato l’eterna Cenerentola.
Silvana De Mari, qual è IL LIBRO della tua infanzia?
Sono nata nel ’53, e allora l’editoria per ragazzi era piuttosto limitata, ma possedevo due magnifici libri di fiabe, di formato molto grande con immagini che mi affascinavano: uno dedicato ad Andersen e uno alle grandi fiabe classiche.
Mi hanno sempre dato il senso del meraviglioso: erano bellissimi.
Cenerentola era lì, con i suoi stracci, i topi, la zucca, la fata madrina, l’abito sontuoso.
Al cinema parrocchiale di Trieste (dove avevo pianto tutte le mie lacrime per la mamma di Bambi, abbattuta a colpi di arma da fuoco, e per quella di Dumbo, rinchiusa come folle per aver cercato di proteggere il suo bambino) davano il film della Walt Disney: bellissimo anche quello.
In un certo senso Cenerentola contiene il Magnificat: gli umili verranno esaltati, i superbi abbattuti. Cenerentola è l’ultimo che diventa il primo. E quindi Cenerentola è la bandiera di tutti quelli che si sentono ultimi.
Un altro punto a suo vantaggio: si parla di sorelle.
Io ho una sorella maggiore. C’è sempre stata un’ingiustizia tra noi due. Non dai nostri genitori. Non dalla mamma che non ha mai fatto toccare un piatto o uno strofinaccio a nessuna delle due, ma da madre natura. La genetica di mia sorella è migliore della mia, il mio sistema immunitario e quello muscolare sono distanti anni luce dai suoi. Lei era l’atleta, accumulava medaglie, non si ammalava mai. Io ne avevo sempre una, se non stavo vomitando, avevo la febbre. Ero goffa e cicciottina, le lezioni di ginnastica erano il mio incubo.
Mia sorella sapeva arrampicarsi sugli alberi.
Eravamo andate in piscina insieme: dopo un anno io aveva imparato a nuotare e cagnolino e lei era diventata campionessa provinciale.
Oltretutto avevo quattro anni di meno. Quello che ha quattro anni di meno non può che essere il più tonto e pasticcione. Lei, invece, era il capobanda di bande dove non mi accettavano nemmeno.
Avevo un unico sogno: che prima o poi, forse, chissà, sarebbe arrivata la fata madrina.
Anni dopo, molti anni dopo, mia sorella mi ha confessato la desolazione provata quando aveva smesso di essere figlia unica, quando con la mia nascita aveva bruscamente perso il posto di principessa. La mia vita intra-uterina era stata un disastro: io e la mia mamma ci siamo fatte sette mesi di minacce d’aborto, sette mesi di contrazioni e emorragie durante i quali lei non è quasi più riuscita a occuparsi della figlia maggiore. Quando finalmente sono nata con due mesi di anticipo, podalica e non troppo capace di respirare, è stato previsto che non sarei arrivata al giorno dopo. C’è stato sgomento per la mia morte imminente e poi la trionfale allegria per ogni giorno in cui ce la facevo a respirare. La vita di quelli che non hanno mai avuto problemi a respirare non è accompagnata da nessun trionfo.
Quando avevo otto mesi mi hanno fatto una diagnosi di poliomielite. A dieci anni ero stata due mesi a letto per una violentissima polmonite che non guariva mai. Erano sempre tutti attorno a me. Bastava che starnutissi, e tutti smettevano di fare quello che stavano facendo, per guardare nella mia direzione. Per ottenere lo stesso risultato mia sorella doveva vincere una gara. Delle due, io ero più brava a scuola. Lei era più coraggiosa. Io, come tutti gli incerti, ero più accomodante e quindi più benvoluta, questa almeno era la tesi di mia sorella, perché a un certo punto, non si è mai capito come sia successo, benché io avessi quattro anni di meno, mi sono trovata a essere io l’utente privilegiato di quando papà raccontava tutto quello che raccontava.
Si fosse mai presentata alla nostra soglia, la Fata Madrina avrebbe avuto i guai suoi.
Il gran sole di Hiroshima. E ho detto tutto.
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