La bella addormentata nel bosco, di Charles Perrault. Versione integrale

La bella addormentata nel bosco di Charles Perrault. Versione integrale
Ovvero, le principesse non fanno Disney di cognome, e neanche i principi. Non si fanno incasellare dai moderni censori. Combattono da mezzo secolo e non si fanno problemi a continuare. (se volete leggere la mia analisi su questa fiaba, sull’essere genitori, principi, principesse e sul dovere delle fate potete leggere questo post di MammaOca)

Esistono due versioni della storia de La Bella Addormentata. Una di Charles Perrault, La Bella Addormentata nel bosco, e una dei fratelli Grimm, Rosaspina. la bella addormentata nel boscoSi distinguono fondamentalmente perché la storia di Perrault (di cui esiste in italiano anche la traduzione toscaneggiante di Collodi) si prolunga nel tempo, la principessa non solo viene risvegliata, ma sposa in segreto il suo principe, ha due figli, e deve avere a che fare con una suocera ovviamente cattiva, per l’occasione è un’orchessa cui piacciono i bambini, nel senso culinario del termine, che farà la fine che si merita. La versione dei Grimm è quella più conosciuta, si conclude con le nozze del principe con la principessa, è quella da cui è stato tratto il cartone animato di Walt Disney. L’altra importante differenza è costituita dalla presenza del Re e della Regina, genitori della Bella. Nella versione dei Grimm vengono addormentati dalla fata insieme a tutta la corte, e si risveglieranno dopo cent’anni con la figlia, assistendo alla sua felicità. Perrault invece, per mano della sua fata giovane, addormenta tutto e tutti “tranne il Re e la Regina”, che quindi, lo riusciamo a capire anche senza che sia detto esplicitamente, non sopravviveranno alla figlia, in un distacco, quello da una ragazza di 15, 16 anni, inevitabile. Senza scomodare la psicanalisi, ma affidandoci all’esperienza, notiamo che questa seconda versione è molto più cruda ma allo stesso tempo realista della prima. La crescita di un bambino, la sua realizzazione, implica il distacco dalla famiglia d’origine. Nelle fiabe avviene in vari modi, tutti piuttosto duri e crudi, è un po’ quello che succede in tutte, il bambino, la bambina, il giovane, la giovane, qualsiasi ruolo sociale abbiano, si distaccano dalla famiglia d’origine e solo così trovano la propria strada, realizzando il proprio destino. 

L’ho letta, riletta e raccontata questa fiaba, e tutte le volte sorrido di quelle piccole ironie di cui è piena, neppure troppo velate, spero le notiate e apprezziate anche voi.

Trovate l’elenco delle altre fiabe presenti sul blog in questa pagina
E questa è la fiaba in PDF da stampare, in bianco e nero, se preferite la versione cartacea. 
La bella addormentata nel bosco

La bella addormentata nel bosco con le bellissime illustrazioni di Arthur Rackham

C’era una volta un re e una regina ch’erano tanto dispiaciuti di non aver figli, ma tanto dispiaciuti da non potersi dir quanto. Tutti gli anni andavano nei più diversi luoghi del mondo a far la cura delle acque; voti, pellegrinaggi, ricorsero a tutto, ma nulla giovava. Alla fine però la Regina si mise ad aspettare e mise al mondo una bambina. Si fece un bel battesimo: per far da madrine alla piccola principessa, furono chiamate tutte le Fate che si riuscirono a trovare nel paese (ve n’erano sette), affinché ognuna di loro facesse un regalo alla bambina, com’era a quel tempo l’usanza delle Fate, ed ella avesse così tutte le perfezioni immaginabili. Dopo il battesimo, il corteo tornò al palazzo reale, ove si dava un gran banchetto in onore delle Fate. Il posto di ciascuna era stato apparecchiato con splendide posate, in un astuccio d’oro massiccio, ov’erano cucchiaio, forchetta e coltello d’oro finissimo, tempestati di diamanti e rubini. Ma nel mentre che tutti stavano prendendo posto, si vide entrare una vecchia fata, che non era stata invitata, perché da oltre cinquant’anni non usciva più dalla sua torre, e tutti la credevano morta o incantata. Anche a lei il Re fece dare una posata, ma non ci fu modo di presentargliela in un astuccio d’oro massiccio, come alle altre, perché egli ne aveva fatti fare solo sette, tanti quante le Fate. La vecchia credette che la si volesse umiliare, e borbottò fra i denti qualche minaccia.

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Venuto il turno della vecchia fata, questa disse, tentennando il capo più per il dispetto che per la vecchiaia, che la Principessa si sarebbe punta una mano con un fuso e ne sarebbe morta.

Una delle giovani fate che si trovava accanto a lei la udì, e temendo che volesse fare qualche brutto regalo alla Principessina, andò a nascondersi dietro a una portiera, allo scopo di parlare per ultima e poter riparare, nella misura del possibile, il male che la vecchia avrebbe fatto. Le Fate intanto cominciarono a fare i loro doni alla Principessa: la più giovane le diede, come regalo, di essere la più bella del mondo; un’altra di avere una grande intelligenza; la terza, di mettere una grazia incantevole in tutto quel che avesse fatto; la quarta di saper danzare a meraviglia; la quinta di cantare come un usignolo, e la sesta di suonare ogni specie di strumento con la massima perfezione. Venuto il turno della vecchia fata, questa disse, tentennando il capo più per il dispetto che per la vecchiaia, che la Principessa si sarebbe punta una mano con un fuso e ne sarebbe morta. L’orribile dono fece tremare tutti i presenti e non vi fu alcuno che non piangesse. A questo punto la fata giovane uscì da dietro la portiera e disse ad alta voce queste parole: «Rassicuratevi, o Re e Regina, la vostra figlia non morirà; è pur vero che non ho abbastanza potere per disfare quel che una fata più vecchia di me ha già fatto: la Principessa si pungerà la mano con un fuso, ma invece di morirne, ella cadrà soltanto in un profondo sonno che durerà cent’anni e in capo al quale il figlio d’un re verrà a svegliarla». Il Re, per evitare la sciagura annunciata dalla vecchia, fece immediatamente proclamare un editto, col quale si proibiva a ogni persona di filare col fuso e di tenere fusi in casa, pena la vita.

Passati quindici o sedici anni, il Re e la Regina essendo andati in una delle loro ville, accadde che la Principessina, correndo un giorno per tutte le camere del castello arrivò fino in cima a una torretta, in una piccola soffitta, ove una brava vecchina se ne stava tutta sola a filare la sua conocchia. La buona donna non sapeva nulla della proibizione fatta dal Re di filare col fuso. «Che state facendo, nonnina?››, chiese la Principessa. «Sto filando, bella fanciulla», le rispose la vecchia, che non la conosceva. «Oh, com’è carino!», continuò la Principessa, «come si fa? datemi un po’; voglio vedere se lo so fare anch’io come voi.›› Non aveva finito di prendere il fuso che, vivace e un po’ avventatella qual era (del resto, il decreto della fata voleva così) ella si punse la mano e cadde svenuta. La buona vecchia, non sapendo cosa fare, si mette a gridare aiuto: accorre gente da tutte le parti; spruzzano dell’acqua sul volto della Principessa, le slacciano le vesti, le danno dei colpetti sulle mani, le strofinano le tempie con acqua della regina d’Ungheria, ma tutto invano, nulla la faceva tornare in sé.

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Allora il Re, che sentendo quel chiasso era salito anche lui, si ricordò della predizione della Fata, e riconoscendo la cosa inevitabile, dal momento che le Fate l’avevano predetta, fece trasportare la Principessa nel più bell’appartamento del palazzo, sopra un letto tutto ricamato d’oro e d’argento. La si sarebbe presa per un angelo, tant’era bella; lo svenimento non aveva fatto impallidire i bei colori del suo incarnato, aveva le guance ancora rosee e le labbra come il corallo; soltanto, aveva gli occhi chiusi, ma si sentiva respirare dolcemente e questo indicava che non era morta. Il Re ordinò che la lasciassero dormire tranquilla finché non fosse arrivata la sua ora di risvegliarsi. La buona fata che le aveva salvato la vita, condannandola a dormire per cent’anni, si trovava nel reame di Mattacchino, a dodicimila leghe da lì, quando alla Principessa accadde questa disgrazia; ma ne fu tosto avvertita da un nanetto, che calzava gli stivali delle sette leghe (erano stivali coi quali si facevano sette leghe ad ogni passo). La Fata partì immediatamente e, dopo un’ora, la si vide giungere su un carro di fuoco, tirato da draghi. Il Re andò a offrirle il braccio per farla scendere dal carro. Ella approvò tutto il suo operato, ma, siccome era alquanto previdente, pensò che quando la Principessa si sarebbe risvegliata, non avrebbe saputo come fare, vedendosi così sola, in quel vecchio castello; ecco perciò quel che fece.

Toccò con la sua bacchetta magica tutto quel che si trovava nel castello (tranne il Re e la Regina): governanti e damigelle d’onore, cameriere, gentiluomini, ufficiali, maggiordomi, cuochi, sguatteri, lacchè, guardie, guardaportoni, paggi e servitori; toccò altresì tutti i cavalli ch’erano nelle scuderie, coi loro palafrenieri, i grossi mastini da guardia nei cortili e perfino la piccola Pussi, la cagnolina della Principessa, ch’era accanto a lei sopra al suo letto. Non appena li ebbe toccati, si addormentarono tutti, per svegliarsi soltanto insieme alla loro padroncina, allo scopo d ‘esser pronti a servirla, quando lei ne avesse avuto bisogno. Perfino gli spiedi ch’erano nel camino, carichi di pernici e fagiani, si addormentarono, e si addormentò anche il fuoco. Tutto ciò avvenne in un attimo: le fate sono assai svelte nelle loro faccende. Allora il Re e la Regina, dopo aver baciato la loro cara bambina, senza che lei si svegliasse, uscirono dal castello e fecero proclamare ch’era vietato a chiunque di avvicinarsi in quei paraggi. Tale divieto non era necessario, giacché nello spazio d’un quarto d’ora crebbero tutt’intorno al parco alberi grandi e piccoli, sterpaglie e roveti in un intrico tale che né un uomo né un animale sarebbe riuscito ad attraversarli: non si vedeva più che la punta delle torri del castello, e ancora, bisognava guardarle da una grande distanza. Fu facile capire come questa era un’altra delle trovate della Fata, affinché la Principessa, durante il sonno, non avesse da temere l’indiscrezione dei curiosi.

Dopo cent’anni, il figlio del re che a quel tempo regnava, e che non era della stessa famiglia della principessa addormentata, si recò un giorno a caccia da quella parte, e domandò cosa fossero tutte quelle torri che si vedevano spuntare al di sopra di quella foresta così alta. Ognuno gli rispose secondo quel che ne aveva sentito dire: certi dicevano ch’era un vecchio castello abitato dagli spiriti; altri che tutti gli stregoni della contrada vi si riunivano in assemblea. L’opinione più diffusa era che vi abitasse un orco il quale si portava lì tutti i bambini che poteva agguantare, per poterseli mangiare comodamente e senza che alcuno potesse inseguirlo, avendo lui soltanto il potere di aprirsi un varco attraverso quei boschi. Il Principe non sapeva cosa pensarne, quando un vecchio contadino si fece coraggio e gli disse: «Mio buon principe, sono più di cinquant’anni che ho sentito dire da mio padre che c’era in quel castello una bella principessa, la più bella che mai si sia veduta; era condannata a dormirvi per cent’anni e sarebbe stata svegliata soltanto dal figlio d’un re, al quale era destinata in sposa». A questo discorso, il giovane principe si sentì tutto di fuoco, credette senza esitazione che sarebbe stato lui a condurre a termine una così bella impresa; e, spinto dall’amore e dalla gloria, decise di vedere immediatamente come stavano le cose.

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Non appena egli si mosse verso il bosco, tutti quei grandi alberi, le sterpaglie e i roveti si scostarono da soli per farlo passare. Lui si diresse verso il castello; esso sorgeva in fondo a un grande viale ch’egli imboccò; quel che lo sorprese non poco fu che nessuno degli uomini della sua scorta avesse potuto seguirlo, perché gli alberi si erano ravvicinati subito dopo il suo passaggio. Non esitò a continuare la sua strada: un principe giovane e innamorato è sempre coraggioso. Entro così in un grande cortile, ove tutto quel che vide per prima cosa sarebbe bastato a impietrirlo dallo spavento. C’era un silenzio che metteva paura: l’immagine della morte era ovunque presente; non si vedevano che corpi distesi in terra di uomini e di animali, che sembravano morti. Si accorse tuttavia, dai nasi rubizzi e dalle gote vermiglie dei guardaportoni, ch’essi erano solo addormentati; e i loro bicchieri, dov’era ancora qualche goccia di vino, dicevano chiaro che si erano addormentati bevendo. Il Principe attraversa un grande cortile lastricato di marmo; sale la scala, entra nella sala delle guardie, che erano tutte schierate in fila, con la carabina in spalla e russavano a più non posso. Attraversa parecchie sale gremite di cavalieri e di dame, tutti addormentati, alcuni in piedi, altri seduti. Entra in una stanza tutta dorata, e vede sopra un letto, i cui cortinaggi erano rialzati da ogni lato, il più sublime spettacolo che mai avesse veduto: una principessa che sembrava avesse quindici o sedici anni e la cui splendente bellezza aveva qualcosa di luminoso e di divino! Si avvicinò tremante per l’ammirazione e cadde in ginocchio accanto a lei.

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E qui, poiché la fine dell’incantesimo era arrivata, la Principessa si svegliò, e guardandolo con occhi più teneri di quanto un primo incontro non sembri permetterlo: «Siete voi, mio Principe», gli disse. «Vi siete fatto molto aspettare!››

Il Principe, incantato da queste parole e più ancora dal modo nel quale erano proferite, non sapeva come dimostrarle la sua gioia e la sua riconoscenza; le assicurò che l’amava più di se stesso. I discorsi di lui erano un po’ sconnessi e per questo piacquero di più: poca eloquenza, molto amore. Egli era più impacciato di lei, né c’è da farsene meraviglia: la Principessa aveva avuto tutto il tempo di pensare a quel che avrebbe dovuto dirgli; giacché è plausibile (la storia però non ne dice nulla) che la buona fata, durante un sonno così lungo, le avesse procurato sogni piacevoli. Insomma, erano già quattro ore che i due si parlavano e non si erano ancora detti la metà delle cose che avevano da dirsi. Intanto tutto il palazzo si era svegliato con la Principessa: ognuno aveva ripreso le proprie faccende; e siccome non tutti erano innamorati, avevano una fame da morire. Una dama d’onore, desiderosa di mangiare non meno degli altri, si spazientì e disse ad alta voce alla Principessa che il pranzo era servito. Il Principe aiutò la Principessa ad alzarsi dal letto: ella era già tutta vestita, e assai splendidamente; ma lui si guardò bene dal farle osservare che era vestita come la sua bisnonna e aveva un colletto che le arrivava fino agli orecchi; non per questo era meno bella. Passarono nel salone degli specchi, e vi cenarono, serviti dagli ufficiali della Principessa. Gli oboe e i violini suonarono sinfonie antiche, ma molto belle, quantunque fossero ormai quasi cent’anni che non le si eseguiva; dopo cena, senza perder tempo, il primo cappellano celebrò le loro nozze nella cappella del castello, e la dama d’onore tirò le cortine del loro letto.

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Dormirono poco: la Principessa non ne aveva un gran bisogno, e il Principe la lasciò di buon mattino per tornarsene in città, dove suo padre doveva essere in pensiero per lui. Il Principe gli disse che, andando a caccia, egli si era perduto nella foresta ed aveva dormito nella capanna d’un carbonaio, il quale gli aveva dato da mangiare pane nero e formaggio. Il Re suo padre, ch’era un buon uomo, lo credette, ma la madre non ne fu persuasa; e vedendo che quasi tutti i giorni il figlio se ne andava a caccia e aveva sempre bell’e pronta qualche scusa, quando era stato fuori due o tre notti, fu sicura che doveva esserci di mezzo qualche passioncella amorosa. In tal modo egli visse con la Principessa per più di due anni e ne ebbe due figli: il primo, che fu una femminuccia, si chiamava Aurora, il secondo, un maschietto, fu chiamato Sole perché sembrava ancora più bello della sorellina. La Regina, per farlo parlare, disse più volte a suo figlio che ognuno a questo mondo è padrone di fare il proprio comodo; ma lui non osò mai confidarle il suo segreto: le voleva bene, ma ne aveva una certa paura, perché veniva da una famiglia di orchi e il Re l’aveva sposata soltanto a causa delle sue grandi ricchezze. Anzi, si sussurrava a corte ch’ella aveva istinti da orchessa e che, vedendo passare qualche bambino, faticava un mondo a trattenersi dall’avventarglisi addosso: ecco perché il Principe non le disse mai nulla!

Ma quando il Re morì, cosa che accadde due anni dopo, e lui si vide padrone del regno, rese pubblicamente noto il suo matrimonio e si recò con gran pompa al castello a prendere la Regina sua moglie. Le fu preparato un ingresso solenne nella capitale ov’ella entrò in mezzo ai suoi due bambini. Qualche tempo dopo, il Re partì per andare a combattere l’imperatore di Cantalabutta, suo vicino. Lasciò la reggenza alla Regina sua madre e le raccomandò caldamente la moglie e i figlioli. Avrebbe dovuto rimanere in guerra tutta 1’estate; non appena fu partito, la Regina-madre mandò nuora e nipoti in una casa di campagna in mezzo ai boschi, per poter più facilmente soddisfare le sue orribili voglie. Qualche giorno dopo vi andò anche lei, e una sera disse al suo capocuoco: «Domani a pranzo, mi voglio mangiare la piccola Aurora» «Ah, Maestà!», disse il cuoco. «Voglio così››, disse la Regina (e lo disse con un tono da orchessa che voglia mangiare carne tenera), «e la voglio mangiare in salsa Robert.»

Il poveruomo, ben vedendo che non era il caso di scherzare con un’orchessa, prese un coltellaccio e salì in camera della piccola Aurora: ella aveva allora quattro anni; ridendo e saltando gli gettò le braccia al collo e gli chiese uno zuccherino. Lui si mise a piangere, il coltello gli cadde di mano, e corse giù nel cortile a sgozzare un agnellino, accompagnandolo con una salsa così buona, che la sua padrona gli dichiarò di non aver mangiato mai nulla di tanto squisito. Nel frattempo lui aveva portato via con sé la piccola Aurora e l’aveva affidata a sua moglie affinché la nascondesse nel loro quartierino in fondo al cortile. Otto giorni dopo, la perfida Regina disse al capocuoco: «Voglio mangiarmi a cena il piccolo Sole». Lui non batté ciglio, deciso a ingannarla come la prima volta. Andò a cercare il piccolo Sole, e lo trovò che tirava di fioretto con una grossa scimmia; eppure non aveva che tre anni! Lo portò a sua moglie, che lo nascose insieme alla piccola Aurora e cucino, al posto del piccolo Sole, un caprettino molto tenero, che l’orchessa trovò delizioso. Sin qui, tutto era andato benissimo: ma una sera, la malvagia Regina disse al capocuoco: «Voglio mangiarmi la Regina mia nuora, cucinata con la stessa salsa dei suoi figlioli».

Fu qui che il povero capocuoco disperò di poterla nuovamente ingannare. La giovane regina aveva ormai vent’anni suonati, senza contare i cento anni che aveva dormito; la sua pelle era un po’ spessa, quantunque bianca e liscia: come trovare, in tutte le stalle, un animale cosi duro! Per salvare la propria vita, il cuoco prese la decisione di tagliarle la gola e salì in camera di lei, col proposito di non pensarci due volte. Cercava di eccitare il proprio furore ed entrò nella stanza della giovane regina col pugnale in mano; però non volle prenderla di sorpresa e le riferì, con molto rispetto, l’ordine ricevuto dalla Regina.<<Fate, fate pure›>, disse lei, porgendogli il collo; «eseguite l’ordine che v’hanno dato; andrò a rivedere i miei bambini, i miei poveri bambini che ho tanto amato.›› Li credeva morti, da quando glieli avevano portati via senza dirle nulla. «No, no, Maestà!», le rispose il povero cuoco tutto intenerito, «voi non morirete, né per questo dovrete rinunciare a vedere i vostri figli; ma li vedrete in casa mia, dove li ho nascosti, e ancora una volta ingannerò la Regina-madre, facendole mangiare una giovane cerva al vostro posto.›› La portò subito in casa sua, dove la lasciò affinché potesse abbracciare i suoi figli quanto voleva e piangere con loro, e lui andò a cucinare una cerva, che la Regina si mangiò per cena, e con lo stesso appetito che se fosse stata sua nuora. Ella era assai contenta della propria crudeltà, e si preparava a dire al Re, quando fosse tornato, che dei lupi affamati avevano divorato la Regina sua moglie e i suoi bambini.

Una sera che, secondo il solito, andava vagando per il cortile e le corti di servizio, allo scopo di fiutarvi l’odore della carne cruda, ella udì in una stanza a pianterreno il piccolo Sole che piangeva, perché la mamma gliele voleva dare in punizione di qualche marachella; sentì pure la piccola Aurora che interveniva a chiedere perdono per il fratellino. L’orchessa riconobbe la voce della Regina e quella dei suoi figli; furibonda per essere stata ingannata, ella ordinò, con una voce così terribile da far tremare tutti, che l’indomani mattina si portasse in mezzo al cortile una gran vasca, ch’ella fece riempire di vipere, rospi, bisce e serpenti, per farvi buttare dentro la Regina, i suoi figli, il capocuoco con la moglie e la serva di casa; aveva dato ordine di portarli tutti con le mani legate dietro la schiena. Essi erano lì, e i carnefici già si preparavano a gettarli nella vasca, quando il Re, che non ci si aspettava tornasse cosi presto, entrò nel cortile, a cavallo; era arrivato di gran carriera e chiese, tutto stupito, cosa voleva dire quell’orribile spettacolo. Nessuno osava parlare, quando l’orchessa, pazza dalla rabbia nel vedere quel che vedeva, si gettò da se stessa a testa in giù nella vasca e in un attimo venne divorata da quelle stesse bestiacce messe lì per suo ordine. Il Re non mancò di addolorarsene: era sua madre; ma ben presto se ne consolò con sua moglie e con i suoi bambini.

MORALE

Attendere un pezzetto per avere uno sposo
Ricco, ben fatto, gentile, amoroso,
E’ cosa naturale.
Ma attendere cent’anni sempre dormendo è un fatto
Davvero eccezionale,
Né più si trova donna ch’abbia un Sonno siffatto…
Poi la favola sembra voler dire altra cosa:
Che i bei nodi d’Imene, anche se ritardati,
Posson render la vita deliziosa,
E che, per aspettar, non van sciupati.
Ma le donne ci metton tanto ardore
A desiar la fede coniugale,
Che a me manca la forza e manca il cuore
Di predicare lor questa morale.

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