Simone il Cireneo, di Giovanni Papini, tratto dal libro I testimoni della passione. Un prodigio inaspettato, una storia raccontata dalla penna colta di Papini, una lingua piena di particolari, descrizioni e aggettivi suggestivi, un autore immedesimato al destino degli uomini, immedesimazione che rende partecipi anche noi che leggiamo. Papini si immagina il cambiamento della vita di un inconsapevole Simone di Cirene, dopo aver portato la croce di Gesù. Questa è solo la prima parte dell’intero racconto, ma è molto significativo anche così. Bellissima la descrizione del rapporto tra quell’uomo qualunque e il figlio.
Simone di Cirene aveva ripassato da poco la porta di Efraim, per rientrare a Gerusalemme e tornare a casa, quando, a una svolta della strada, s’imbatté nel terribile corteggio dei tre condannati a morte che, in quella vigilia di Pasqua, s’avviava al Golgotha.
Se l’avesse potuto scorgere o indovinar da lontano, il Cireneo sarebbe sfuggito a quel pauroso incontro. Uomo di campagna e di fatica, più soggetto al timore che alla curiosità, non gli piacevano gli assembramenti e le confusioni dove è più facile perdere che guadagnare, e allontanava dai suoi occhi, soprattutto, quel che poteva ricordargli la morte. Quando poi vide che alla testa del corteggio c’eran soldati romani a piedi e a cavallo si turbò ancora di più. Non già che odiasse i romani – non aveva tempo di odiar nessuno, eppoi un padrone ci vuole – ma per istinto e sistema non voleva aver mai nulla a che fare nè coll’autorità nè colla giustizia nè coll’esercito. Era un uomo semplice, un proprietariuccio povero e stanco, un ebreo di poche vedute e di fiacche passioni: voleva star tranquillo nel suo cantuccio, vivere e lasciar vivere. Aveva il terrore dei tribunali e dell’armi, sapendo, per istinto, che con queste e in quelli non avrebbe saputo difendersi.
Ma scansarsi, quel malaugurato giorno, non poté. Il corteo era fermo: uno de’ giustiziandi era caduto malamente in terra, ché non era più capace di reggere la pesante croce. I soldati avevan furia e imprecavano. Simone, non potendo passare oltre quella calca, s’era fermato ridosso a una casa, nel vano della porta, e cercava di non farsi troppo vedere, maledicendo in cuor suo quell’infelice ch’era causa di quell’intoppo e di quel ritardo. Ma il Centurione romano, che si guardava attorno, lo scoprì. E accorgendosi che Simone era atticciato e timido, con la mano e con la voce lo chiamò a sé. Sulle prime il Cireneo fece finta che non dicessero a lui e volse gli occhi da un’altra parte. Ma un soldato gli fu addosso;
– Villano, sei sordo?
Lo prese per un braccio e lo condusse fin presso il condannato, che giaceva in terra, sfinito.
– Mettiti addosso quella croce, gridò il Centurione.
Simone sapeva che ad un comando siffatto non si poteva in alcun modo sottrarsi. Malvolentieri, controvoglia, dispettosamente stronfiando, il Cireneo si accomodò sulla spalla il patibolo e s’avviò innanzi, perché almeno rabbia e fatica finissero prima. Non si curò di guardare il condannato del quale prendeva, in certo modo, il posto. Intravide un corpo abbiosciato e un viso fradicio di sudore misto a fili di sangue. Simone non poteva sopportare la vista del sangue e subito sviò lo sguardo e prese pacatamente a camminare.
La croce spiombava, ma il Cireneo aveva spalle di mulo e gambe d’atleta. E mentre rifaceva a ritroso la via già fatta, verso la porta di Efraim, pensava ai casi suoi.
Non era contento. Nel suo campetto, a mezza strada fra Gerusalemme e Neftoa, ci sarebbe stato ancor più da fare; l’acqua era scarsa, il bindolo era guasto, i topi avevan fatto dei danni all’orzo. Ma era la vigilia di Pasqua e Mikal, la moglie, gli aveva raccomandato di tornar presto a casa ed egli sapeva, ormai, per annosa pratica, con quali strepiti e improperi avrebbe dovuto scontare quel ritardo. Era venuto via prima anche per un’altra ragione; avrebbe dovuto recarsi, quella mattina, dal vecchio Eliezer, suo debitore di pochi sicli, che prometteva da mesi e mesi di pagare e sempre gli mancava il più e il meglio. Simone aveva estremo bisogno di quel denaro prima di Pasqua e prevedeva, con terrore, l’accoglienza che gli avrebbe fatto la moglie se fosse tornato anche quel giorno a mani vuote.
C’era poi un’altra ragione del suo tornar sollecito di quella mattina, anzi la più grave e la prima. Il suo figliolo maggiore, Alessandro, da più giorni era consumato da una febbre che non gli dava requie se non breve tempo all’alba e lo aveva ridotto un cencio. Simone aveva promesso a Mikal che avrebbe portato a casa, in tutti i modi, una gallina nera che, sventrata a forma di croce e tenuta sul capo raso del malato, è il più certo rimedio delle febbri croniche. Ma non era riuscito a trovarla in campagna e non avrebbe avuto il tempo, ora, di farne ricerca in città.
Angustiato da questi pungenti pensieri Simone procedeva spedito sotto il gran peso della croce, e quasi non lo sentiva, tanta era la voglia di arrivar presto al luogo del supplizio. Passi e voci di uomini, mormorii e pianti di donne giungevano ai suoi orecchi, ma non aveva voglia di voltarsi e tanto meno di chiedere notizie dei condannati. Aveva sentito dire da certi vecchioni che assistevano al passaggio del corteo, che si trattava di briganti e non cercò di saper altro.
Simone era venuto dalla natia Cirene a Gerusalemme da pochi anni, per motivi di eredità, e non conosceva quasi nessuno nella città santa, né si curava di far conoscenze nuove e tanto meno teneva dietro ai pubblici affari. Campo e casa era la sua vita e nessuno amava fuor dei figliuoli.
Non sapeva nulla, perciò, di quel ch’era accaduto in quei giorni e i condannati erano, secondo lui, delinquenti comuni. Aveva un po’ di rabbia contro il più debole, contro quello che l’aveva costretto a quel ritardo, ma non arrivava all’odio. Fra poche ore, pensava tra sé, questo sciagurato pagherà con lo strazio e la morte anche questa sua colpa, che sarà l’ultima.
Arrivarono, finalmente, allo spiazzo ch’era in cima al Golgotha. Già s’era aggrappolato intorno un ominaio vociante. Simone posò la croce in terra e senza chiedere licenza né salutare, colse il momento che i soldati gli voltavan le spalle, sgattaiolò tra capannello e crocchio, e a passi di fuga ripassò la porta di Efraim e si nascose in Gerusalemme deserta. Nella sua testa di buonomo sacrificato tenzonavano quattro immagini dominanti: la gallina nera per la febbre, i sicli d’argento di Eliezer, il figliolo bruciante e smaniante, la moglie furibonda.
Da qual parte avviarsi? Ormai era tardi ed era stanco; la spalla destra, indolenzita e ammaccata, gli dava noia. Prevalse l’amore di Alessandro sul timore di Mikal; il desiderio di saper come stava il figliolo, di rivederlo, di far qualcosa per lui. Arrivò alla sua strada, si avvicinò alla sua casa. Sulla porta, come già sapeva anche prima d’averla vista, stava in agguato, scrutante e torva, la moglie.
Il povero Simone si accorse che nessuno lo avrebbe salvato dalla tempesta che già s’annunziava nei baleni degli occhi di Mikal. Era donna di giudizio e di cuore, disposta a soffrire e a svenarsi per il marito e per i figlioli, ma era pur donna di passione e perciò pronta ad accendersi e a garrire. Simone era preparato al rovescio e non aveva altra speranza che di prevenirlo con una di quelle giustificazioni che fermano le più ardite lingue.
Si fece incontro alla moglie e prima che questa potesse aprir bocca le posò dolcemente una mano sulla spalla – una di quelle mani che avevano tenuto e premuto il legno destinato a Gesù. Accadde allora un miracolo, un prodigio inaspettato. Mikal guardò il marito negli occhi e subito si addolcì. E invece di coprirlo di contumelie, come un istante prima voleva fare, disse a Simone con la voce dei giorni placidi:
– Come stai? Sei stanco? Vieni subito in casa. Il nostro Alessandro sta sempre male.
Simone trasecolava e non sapeva rendersi ragione di quell’improvviso e mai più visto mutamento. Ma l’affetto per il figliolo lo sviò subito da quel problema. Entrò in casa e corse in camera di Alessandro.
Il giovinetto era disteso, mezzo nudo, sul lettuccio basso e pareva dormisse. Ansava forte, il viso era umido e pieno d’ombre inquietanti: ombre le occhiaie, le narici, le gote disfatte, le pieghe tristi dei labbri. Accanto a lui, seduto per terra, il fratellino Rufo.
Appena sentì entrare il padre nella stanza, il febbricitante aprì gli occhi e lo guardò con espressione d’infinita e ansiosa speranza. Tu sei mio padre e sei forte, pareva che dicessero quegli occhi, tu mi hai dato la vita e mi strapperai dalla morte. Simone si avvicinò pian piano al letto e guardò lungamente il figliolo.
Disse Mikal:
– Hai portato la gallina nera?
– Non l’ho trovata, non ho avuto tempo di cercarla. Dopo ti racconterò tutto.
Alessandro, che abbandonato giù tra quei cenci intrisi di sudore respirava male, fece atto d’alzarsi e subito Simone l’aiutò. Il figliolo gli pose una mano scarnita sulla spalla destra – su quella spalla indolenzita che aveva sostenuto il peso della croce di Cristo – e provò a tirarsi su. Ma era debolissimo e quell’appoggio non gli bastava. Allora il padre lo abbracciò con tutt’e due le braccia, lo strinse al seno, sollevò il corpo sfinito con materne precauzioni e lo accomodò a sedere sul letto.
– Non mi lasciare, – mormorò Alessandro.
Abbracciò stretto il padre, gli teneva le mani magre sugli omeri. A Simone quel contatto sulla spalla intormentita dal tronco della croce dava un po’ di fastidio ma non ebbe il coraggio di allontanarsi dal figliolo né di sciogliersi da quell’abbraccio.
Pareva che Alessandro godesse infinitamente a sentirsi così unito al padre: gli sembrava di sentirsi riavere, gli pareva, di momento in momento, di star meglio, di essere un altro.
Mikal, in disparte, guardava con amore padre e figlio così abbracciati. Non si sentiva più il faticoso respiro del ragazzo: a poco a poco il malatino si addormentò col capo sulla spalla di Simone. Questi, per non destarlo, sopportò con amorosa pazienza la molestia che il dolce peso dava alla spalla indolita.
Stettero uniti in quel modo un pezzo. All’improvviso Alessandro si svegliò e non pareva più lui. Gli occhi eran quasi limpidi, era scomparso il sudore.
Mikal si precipitò sul figliolo e lo toccò sulla fronte e sulle guance, gli palpò il petto e le spalle.
– Simone! gridò la madre. Simone! Il nostro Alessandro è guarito! Non suda più, non brucia più! Sia lode all’Altissimo!
La poveretta un po’ rideva di meraviglia e un po’ piangeva di gioia né sapeva più che fare. Ora accarezzava il volto del marito stupefatto, ora copriva di baci il viso del figlio risuscitato. Quella terribil febbre che durava da quasi due settimane e aveva resistito a tutti i rimedi naturali e magici, e stava per struggere e portar via il suo primogenito, era stata guarita e vinta in pochi istanti. Simone, col solo contatto della sua mano e della sua spalla, aveva ridato la vita al morituro.
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